Coreografie di un lessico caro è una ginnastica della memoria, pedana lirica in cui la parola si fa corpo e spazio abitabile per l’esperienza umana. Il dolore quando arriva è informe e il rimedio non sta nell’arginarlo ma nell’offrirgli coordinate per orientarsi: ora una parentesi corale che accoglie, ora la coniugazione giusta in cui sostare. Sbattezzare, nominare, poi rinominare è un gesto che sfiora la geometria. Dare forma alle cose un bisogno antico quanto il linguaggio, capace di riconoscerle e dar voce all’indicibile.
Se il movimento è parola e la parola è movimento, fonatorio e articolare, allora può essere disciplinato. Qui fa capolino la coreografia tra leggerezza e rigore: la voce poetica diventa unità di misura espressiva, un atto di contenimento incarnato che riorganizza i significati secondo il tempo emotivo.
Con la cura riservata agli affetti più cari, la Poetessa guida i passi delle liriche, tra passato e presente, forza e fragilità, invitando il lettore nel vivo del suo corpo di ballo interiore, un ensemble di memorie pugili, assenze affilate e gioie rotonde che danzano in sincronia. Anche la struttura grafica si accorda a questo flusso verbale: i titoli introdotti da grate simboliche, diventano un ritornello visivo che scandisce il ritmo di lettura.
Martina Muci non scrive, lei disegna con le parole, plasma il vissuto attraverso un lessico plastico e succoso che ha l’immediatezza di una composizione pittorica.
La muscolatura del sottotesto agisce in un intreccio stratificato a sostenere la postura espressiva dell’opera, coi versi che si allungano come arti tesi o si contraggono in pause di precisione. Non è forzatura muscolare però, bensì quella tensione squisitamente misurata con cui le ballerine saggiano l’aria con le punte per trovare il loro equilibrio nello spazio.